Green is the new Orange

Green is the new Orange

in queste poche righe non si parla di medicine e cure, di salute forse sì, non è la stessa cosa

Lo stato di emergenza è una condizione temporanea in cui viene tollerata la sospensione di alcuni diritti in nome di un problema comune.
Con abile artificio retorico questo problema viene preferibilmente chiamato nemico.

In Italia uno stato di emergenza dura da almeno cinquant’anni.

Negli anni ‘70 in nome dell’emergenza terrorismo passano una legislazione speciale, una carcerazione speciale, i rastrellamenti dei quartieri, i carrarmati nelle strade, i sequestri di persona da parte delle forze dell’ordine, le torture e quindi uno stravolgimento del diritto che partendo dalla chiamata di correo va alla legislazione premiale per i pentiti e quindi per i dissociati. Cose che avrebbero fatto rabbrividire financo “il Beccaria”.

A seguire vi fu l’emergenza mafia, ancora pentiti, ancora militari nelle strade con l’operazione Vespri Siciliani, il carcere duro (41 bis), l’ergastolo ostativo e il fine pena mai.

Poi l’emergenza terrorismo internazionale, l’integralismo islamico, i CPTA, CPT, CIE, CPR, nomi di prigioni senza legge, senza avvocati, senza diritti, solo guardie e reclusi, il reato di clandestinità, ancora soldati disposti nelle città con funzioni di ordine civile.

Nel frattempo, da quel tempo, un’altra emergenza insidiosa, quella della crisi economica, della lotta a coltello tra capitalisti, la concorrenza, che produce rapporti di lavoro precario, de-regolamentato (o normato da una intricata giungla di forme contrattuali). In nome di una emergenza produttiva e di consumo, che portava i capitalisti all’affanno, passano licenziamenti di massa, riduzione dei salari, frammentazione dei contratti e dei soggetti che concorrono alla produzione; attraverso gli appalti e i subappalti si ricostruisce l’anima delle imprese produttive, si ingrossano le file dell’esercito occupazionale di riserva e si abbassano i salari. Dove prima c’era una contrapposizione lavoratori/impresa adesso ci sono tanti soggetti e tante imprese, una interlocuzione che si disgrega da sola. La forza contrattuale di lavoratrici e lavoratori ne esce piegata; questi, privati di un senso di coesione solidale, sono portati ad avere indifferenza quando non addirittura a farsi concorrenza l’uno con l’altro.
La necessità di dover fronteggiare una crisi di lunga durata non fu mai nascosta, non c’era bisogno di nascondere il fatto che si dovesse sacrificare qualcosa e qualcuno. La mongolfiera dell’impresa Italia, per restare in quota, deve lasciar cadere la zavorra. Anche qui il concetto di temporaneità è praticamente scomparso. Ogni anno che passava il coltello dell’emergenza approfondiva la ferita sul corpo sociale. Dagli anni ’90 il senso Comune di chi sperava di restare occupato ha fatto da cuscinetto allo scontro sociale.

La rappresentazione del problema come di un nemico Comune, questo sì mutevole, fa sì che, volta per volta, si ridefiniscano i confini di quel che si intende per Comune.

Negli anni ‘70 gli interessi Comuni che giustificavano l’emergenza vivevano dell’equilibrio tra gli interessi della media borghesia e del gran capitale. Le tensioni sociali guardavano verso una radicale rottura degli assetti socio-economico, i movimenti agenti per la trasformazione, che pure rappresentavano una fetta consistente della popolazione, erano estromessi dall’essere Comune, la necessità di tenerli al di fuori giustificava l’emergenza.

La lotta alla mafia costituiva il suo Comune lasciando fuori gruppi di potere extra legale ma anche grandi strati di sottoproletariato non disciplinabile alle necessità del momento, ai nuovi equilibri, nazionali ed internazionali.

La guerra allo “straniero” si è corroborata additando le vittime del saccheggio effettuato anch’esso in nome di un interesse Comune. È questo un sistema che si autoalimenta e genera, se mai, contesa solo sul numero dei giri di chiave da dare ai ferri, questi ultimi restando generalmente indiscussi.

Nell’alto medioevo l’unica istituzione rimasta in piedi dopo la caduta dell’Impero Romano, la Chiesa, colonizzava la campagne, popolate da analfabeti miserabili, ancorché più gaudenti di quanto ci raccontino a scuola, buoni solo per coltivare le terre ed allevare animali per le mense dei signorotti feudali. Con occhio lungo il clero occupava ogni centro abitato costruendo delle Chiese, luoghi di culto, all’interno delle quali il credo era dipinto a chiare lettere sulle pareti. Gli absidi, verso cui si sarebbero rivolti gli occhi dei fedeli, rappresentavano le sofferenze in terra, la ricchezza salutare della promessa e le vicissitudini per arrivarci. La più potente ed efficace rappresentazione, che non necessitava di liturgia per essere capita, era “il trionfo della morte”.
Lì il popolo poteva vedere rappresentate le sue più nascoste paure di fame, malattia, e morte impersonate dagli atroci supplizi e dall’orrido destino dei peccatori. In fondo brillava una sola luce, quella della speranza. Si doveva imparare a credere all’immutabilità di uno sfortunato presente, imparare a dar prova di pazienza e sopportazione, solo così l’uomo poteva disporre del suo libero arbitrio.
In fondo anche Cristo aveva dovuto morire per essere libero.
Chi non accettava queste condizioni, chi anche solo pensava a diritti diversi, finiva facilmente sul rogo, di fronte a piazze osannanti il martirio.

Non per tutti è così. Il partito dei comunisti, per esempio, è pensato a guida di una transizione sociale operata la quale è destinato ad estinguersi, il suo essere Comune è pensato in modo transitorio. Il proletariato è in lotta per abbattere il capitalismo, liberarsi e liberare i capitalisti dal loro ruolo infame. Il comunismo non è il mondo dei proletari ma quello senza proletari (perché senza capitalismo), è un mondo in cui tutti, indistintamente, possono essere liberi. Forse per questo è stato così difficile passare dalla teoria alla pratica.

Il nazismo sostituì il concetto di nazione con quello di razza, stravolse così il senso dei confini e dell’essere Comune. Una razza superiore, quella tedesca, era libera, le altre non avevano altro destino che essere dominate. Un apparato retorico di enormi proporzioni fu messo in campo per dare compattezza a questa Comune di liberi che pur continuavano a lavorare l’acciaio nelle fonderie del Reich e che sarebbero ben presto andati a morire in guerra. Un apparato retorico che teneva fuori ebrei, rom, sinti, e poi (venendo meno al discrimine di razza) omosessuali e comunisti. E fu sterminio. Olocausto e Porrajmos meritano argomenti più complessi per essere analizzati e descritti, qui ci interessa solo notare come l’iniziale esclusione fu contemporaneamente principio di coesione per il sentimento Comune dominante.

Quello che salta agli occhi oggi, nel pieno della terza fase della pandemia Covid-19, è che ci troviamo di fronte ad una ennesima mutazione dello stato di emergenza che segue, senza discontinuità, i suoi precedenti.

In nome di un nemico da combattere si schierano gli eserciti, si chiedono sforzi e rinunce, si abdica alle regole abituali e temporaneamente (ossia nello specifico da quasi due anni) si misconoscono i più elementari diritti della comunità.
È utile specificare che il nemico è il virus SARS-COV-2 in quanto tale più che in quanto minaccia alla salute. Fosse stato altrimenti, infatti, non ci sarebbe voluto molto a chiudere subito i luoghi della produzione per tutelare la vita di chi ci lavorava, sarebbe sembrato sensato mettere in piedi delle linee di ricerca per intervenire sul campo volte, se non a guarire, quantomeno a contenere le nefaste conseguenze dell’aggressione virale. Non si sarebbero chiuse le porte alle cure dei malati di altri mali, i cui decessi per la trascuratezza praticata rischiano ora di diventare più numerosi di quelli causati dal SARS-COV-2. In breve si sarebbe considerato il problema non come un nemico da abbattere ma un ostacolo da superare o qualcosa con cui imparare a convivere, in un complesso di cause più articolato, con una prospettiva temporale più ampia, e con una rispettosa consapevolezza del dubbio e dell’incertezza.

Per altro, un sistema che ha trasformato la salute in un circo di operatori privati interessati alla pecunia, che in una ottica di mercato massimizzano le prestazioni (e gli introiti) minimizzando i costi e uno Stato che, tra le altre cose, possiede la quota di maggioranza di una delle più prestigiose industrie di armi, di tecnologia militare, di dominio e di morte del mondo, difficilmente potevano comportarsi diversamente. La “salute” e lo “star bene” della collettività non sono nel loro vocabolario.

Prima fase

In realtà la prima fase della pandemia qualche spiraglio l’aveva fatto intravedere. Mentre le strade erano vuote e si sentivano solo i rumori della produzione e le sirene delle ambulanze, sembrava emergere una consapevolezza nuova della necessità di imporre una svolta radicale ad un modo di vivere che comunque portava sofferenza e lutti. La malattia emergeva in tutti i suoi aspetti, sociali, ambientali, economici oltre che sanitari.

Sin dall’inizio la rumba dei numeri e dei divieti furono di supporto allo stato di emergenza. Chi comanda non può sbagliare altrimenti che comanda a fare? Deve essere determinato e giusto nelle sue scelte, fossero anche spiacevoli. Anziché dichiarare una temporanea resa, ammettere l’incertezza, chiamare alla solidarietà e alla collaborazione si affilarono i coltelli di un positivismo fuori tempo massimo fatto di grafi che mutavano ogni giorno, insieme alla loro interpretazione, senza mai perdere la loro veridicità. Va qui spesa una parola di encomio per quei commentatori che hanno seguito il groviglio dei numeri trovando ogni giorno una buona parola, una spiegazione utile, poco importa se differente da quella del giorno prima. L’oracolo di Delfi è stata un’istituzione più seria.

Correndo veloce come il gatto con gli stivali, mentre il senso Comune veniva soffritto fino a doratura, alla fine del 2020 (in meno di un anno) si potè dare il via alla seconda fase della pandemia.

Seconda fase

Il Vaccino, non uno qualunque ma di un tipo nuovo nuovissimo. Altamente tecnologico che financo nello stoccaggio doveva stupire, essendo necessario conservarlo a -80° Celsius, una temperatura mai vista prima, atterrava sulla pista costruita dai grafi contorti. Era la nuova grande Berta.

Non che non fossero disponibili altri vaccini o altre ipotesi di cura ma erano più banali, produzioni russe o cinesi, degli strani esperimenti cubani o pozioni di stregoni. Tutto troppo vecchio stile. Solo gli inglesi, con un modello un po’ di qua e un po’ di là, tra il vecchio e il nuovo, vennero tollerati per un po’, per poi essere lasciati al loro destino.

Da allora (fine 2020 – inizio 2021) iniziò a prendere corpo l’apparato liturgico. Furono allestiti gli hub vaccinali, stabilite le priorità e, mentre facevano capolino i primi obblighi, vennero aperte le porte alla registrazione per la prima dose. La morte, mentre mieteva vittime, trionfava sulle prime pagine dei giornali e picchiava duro sui social, dove si rivolgevano occhi di tutti, ma ora una luce era apparsa in fondo. Ogni dubbio che poteva aver accompagnato la prima fase tendeva a svanire. Prendeva vita un nuovo Comune, quello dei vaccinati.

Prima ancora di conoscerne compiutamente gli effetti e le potenzialità, basandosi su una procedura approvativa frettolosa e, come si potrà intuire poi, in parte lacunosa e incompleta, la salvezza prese la forma del Rna messaggero. L’occidente progredito non aveva tradito le speranze e aveva prodotto in soli 10 mesi un ritrovato scientifico in grado di mettere l’umanità al riparo. Non si potè che parlare di miracolo.

I complementari diventarono quindi una mera questione organizzativa. Le priorità di chi doveva ricevere la dose, dove, quando. Questioni emersero in merito all’iniqua distribuzione mondiale e addirittura fece un certo scandalo, subito rientrato, il fatto che qualcuno potesse speculare sulla cura. Per un paese in cui il business sanitario è quasi al 50% nelle mani dei privati non dovrebbe stupire, ma stupì, persino. La distribuzione tra stati in effetti era iniqua, la soluzione HighTech era uscita un po’ costosa, non solo in termini di royalties ma di produzione, modalità di trasporto e conservazione, che non tutti potevano permettersi. Peccato. Certo ci fu una gara per farne caritatevole dono ai paesi del terzo mondo, non prima però, di aver messo al sicuro anche le fasce Comuni meno esposte.

Dopo essersi arricchiti del sacccheggio di metalli preziosi, oli combustibili, materie rare, dopo aver approfittato per secoli di braccia affamate, dopo aver imposto modelli economici sotto la minaccia – applicata – di sanzioni, dopo aver erogato prestiti i cui soli interessi valgono un PIL, dopo aver imposto la decima anche negli anni di carestia ecco che la processione per la festa del Santo doveva essere bellissima e non poteva mostrare alcuna crepa. Il Covax fu il frutto di un atto di pura generosità.

Curiosamente, poiché non si può lasciar tempo in mezzo all’azione, questo orgasmo vaccinale, partito a gennaio 2021, non potè che vedere il suo climax che nella primavera dello stesso anno, per arrivare ad una buona copertura già all’inizio dell’estate, il momento meno utile. È infatti la stagione in cui i coronavirus sono meno aggressivi e pericolosi. Questo fatto, unitamente all’indubbia efficacia immediata delle soluzioni adottate, anche quelle nuove nuove, fece sbrogliare ed appiattire le curve e contribuì a dare speranza ad un ritorno ad una normalità che era il mondo di prima con una puntura in più. Con questa serenità iniziò a prendere corpo l’idea che chi non accettava di stare a queste regole, per qualsiasi motivo, non potesse che essere insano di mente.

Al momento qui non interessa ASSOLUTAMENTE dare una valutazione medica sugli effetti a breve o a lungo periodo di qualsiasi terapia adottata per la pandemia COVID-19.
Non ho le conoscenze necessarie e ritengo che, soprattutto per quanto riguarda il lungo periodo, non le abbia NESSUNO.
Con buona pace chi invoca la Scienza si ricordi che la sua strada è lastricata di errori ed inciampi e che ogni certezza è destinata a diventare il dubbio del giorno dopo. In questa situazione poi è soprattutto la confusione a regnare. Vi sono, sì, tante piccole nozioni che solo per delle esigenze di politica e di governo vengono composte in un quadro unico dividendole, con fare un po’ radicale, in due gruppi, quelle giuste e quelle sbagliate. Piuttosto quel che qui si vuole sottolineare è come, pur in mancanza di un sapere CERTO (supposto che quella della certezza sia una categoria applicabile alla conoscenza) una certa parte di mondo iniziò allora a costruire la figura di un nuovo tipo di eretici, portatori di null’altro che non fosse follia e morte: il popolo dei NoVax.

In nome del novello senso Comune si iniziarono ad elaborare forme di discriminazione ed emarginazione, eccezionali ma necessarie.

Prese così corpo il certificato verde, verde come la svolta ecologica che avrebbe salvato il pianeta senza danneggiare l’economia e i patrimoni. Questo fu emesso per garantire un primo livello di sicurezza.

Terza fase

Nel frattempo i limiti della cura iniziarono a venire a galla. Questa non era in grado di garantire immunità, non preservava dal contagio, i suoi effetti sembravano svanire più in fretta di quanto previsto, di quanto raccontato. Nulla si sapeva sugli effetti collaterali sul lungo periodo. Certo attuenuava molto gli effetti gravi della malattia e riduceva molto la mortalità ma, come la grande Berta, era ben lontana dall’essere una soluzione finale. La stagione, anche lei, cambiava, in modo questo prevedibile, e non aiutava una narrazione serena, con l’inverno tornavano i malanni. Per tutta questa serie di motivi i grafici si ingarbugliarono di nuovo e le curve rinziarono a muoversi di nuovo. Fortuna volle che il capro espiatorio, oltre che i solerti maestri della liturgia, era pronto, bastava pigiare il bottone. Fu quindi un attimo emettere un nuovo “super” certificato che ulteriormente rimarcasse la distanza tra eretici ed ortodossi. A tutela del Comune:

Quest’anno abbiamo ricominciato ad essere normali, vogliamo conservare questa normalità”(1) dice il presidente del consiglio Mario Draghi nella conferenza stampa del 24 novembre. “se abbiamo un po’ di restrizioni per i vaccinati è normale questo Natale, e speriamo che questa pandemia si evolva in maniera tale che il prossimo Natale sia veramente un Natale per tutti” (idem)

e ancora, sugli stati di emergenza:

La domanda che bisogna porsi è ‘a noi cosa interessa? Prolungare l’emergenza o avere a disposizione tutta la struttura di vaccinazione, di ospedalizzazionie di mobilitazione sanitaria, di controlli eccetera che ci ha permesso finora di affrontare l’epidemia?’
Io credo che la risposta sia la seconda. Per cui [credo che] la strada di buonsenso sia quella di chiedersi se è possibile mantenere questa struttura senza necessariamente promulgare un altro stato di emergenza. […] Però non lo so se questo è possibile, lo vedremo.

Ad oggi cosa ci resta?

Non poco.

Un senso Comune impaurito, perché consapevole di disporre di strumenti imperfetti, incattivito perché da qualche parte si deve sfogare e convinto che non si può, non si deve mai fare un passo indietro.

Una banda di eretici dispersi, senza prospettiva strategica, che raccoglie i punti di vista più svariati di cui si deve lodare l’ostinata tenacia e il saper stare nel mirino di chiunque abbia intorno.

Della salute si sa che si sta male e si muore. Di covid senz’altro (anche se meno dell’anno scorso), di cure forse, di trascuratezza e disinteresse come e più di prima. La normalità citata da Draghi non salva solo il natale ma l’intera gestione malsana dell’ambiente e dei corpi.

Grazie alla rinnovata fiducia nella scienza e nella tecnologia si è nel frattempo sdogatata la green economy che, messa all’orizzonte dell’affresco mostra un mondo digitalizzato, dotato di ancor più prodigiosi strumenti di comunicazione, trasporto, controllo e probabilmente di sterminio. Meno lesivi per l’ambiente Comune e che nascondono, a loro volta, una colossale incertezza sul medio e lungo periodo ma che, nel breve, garantiscono la sopravvivenza dei signori e signorotti di questo tempo.
E non è poco.

Che fare

Che fare è un interrogativo pressante ma che non può che restare senza risposta. Sperimentare, questo sì, premere sul confine, non collaborare ma socializzare e, come diceva un testo sull’abolizionismo carcerario di molti anni fa, non giudicare.

Anche questo non è poco.

Ommot 25 11 2021