Carcere di Pianosa, sezione Agrippa, anno 1992

Dopo il primo via vai della conta e il rumore dei carrelli in corridoio, sento colpi di manganello e schiaffi che coprono le urla dei detenuti del primo blocco. Passano al secondo, con violenza inaudita. Man mano che si avvicinano alla mia cella le grida diventano sempre più forti. Pochi minuti ancora e tocca a me e al mio compagno. Il capo della squadretta mi si rivolge con rabbia ingiustificata. Lo saluto e mi ordina di non alzare la testa.

Uno di loro va oltre: “Sicuramente il padre doveva essere un mandriano e la madre una grandissima zoccola”. Poi, prendendomi da detro la testa e sbattendomi con violenza al muro, aggiunge: “Abbassa le corna”. Dal naso comincia a grondare sangue. Con lo sguardo riverso vedo la pozza che si e formata ai miei piedi. Con il manganello mi fa cenno di allargare ie gambe e comincia la perquisizione. Passa il metal detector nel retto. Procede al controllo dei capelli e delle orecchie. Mi chiede di aprire la bocca dove esegue un inutile ispezione. ll sangue cola sulle labbra imbrattandomi la camicia, unico indumento che mi hanno concesso di prendere a Palermo. Finita la perquisizione, un altro di loro, con altrettanta violenza, mi dà una manganellata sulla spalla. A causa del forte dolore, penso di averla persa.

Corro per raggiungere il cancello, ma vengo stoppato da calci, pugni e sberle: sono in venticinque, in fila, lungo i quaranta metri che separano la mia cella dal cortile. Mi sembra di percorrere chilometri.

Esco, frastornato dalle botte, col fiatone, per godere di una sola ora d’aria.

Altri detenuti dello stesso blocco, come me, sono storditi e pieni di ecchimosi. Ci guardiamo in faccia, come per confortarci. Da sopra il muro di cinta un aguzzino ci avverte di non parlare. Cerco di pulire il viso e la camicia servendomi di un rubinetto che si trova nell’atrio.

Poi, camminiamo, muti, nel passeggio per circa trenta minuti.

Nuovamente le grida e le proteste dei detenuti del primo blocco che stanno rientrando.

Penso, come tutti, che da quel luogo non usciremo vivi.

Alzo gli occhi al cielo e penso “Sia fatta la volontà di Dio: questo e mio destino”. Siamo in fila come vitelli nel coridoio del macello, pronti per essere scannati.

Aspetto il mio turno per entrare. Appena dentro, mi giro verso il muro e ricomincia la stessa procedura di perquisizione.

Dentro il corridoio sento odore di pulito: i lavoranti, su loro ordine, hanno eliminato le tracce di sangue. Anche loro non ricevono un buon trattamento. Sono tutti di colore e mostrano di essere impauriti. Cerco di non farmi cogliere alla sprovvista ma, mentre sono con le braccia aperte e le gambe divaricate, ricevo un pugno da sotto il braccio.

“Hai dimenticato di salutare” mi dice un aguzzino.

Mi colpisce tra l’occhio e il naso. Ricomincio a sanguinare.

La tortura è cominciata. Cerco di divincolarmi, ma inizia una gragnola di pugni, schiafi e sputi. Alcuni mi tengono per non farmmi rovinare a terra, altri finiscono il lavoro.

Quando smettono, una manganellata mi dà il via.

Corro come un cavallo quando esce dal box per la corsa. Io, invece, devo entrare in una gabbia.

Appena in cella corro in bagno. Con l’acqua fredda cerco di bloccare l’emorragia del naso.

Tolgo la camicia che cerco di lavare. Dopo averla strizzata, la stendo alla grata della finestra. Mi viene subito proibito. Non mi resta che appoggiarla sul letto, inumidendo le lenzuola, già sporche del sangue lasciato dalle zanzare che, ogni tanto, riesco a colpire.

Sul corpo, martoriato e pieno di ecchimosi, affiorano i segni violacei per i colpi ricevuti. Il mio compagno di cella è nella stessa situazione

Ci guardano attraverso le sbarre della cella: attendono qualche lagnanza per avere il pretesto di entrare e continuare l’opera.

A sera passano con il carrello, lo stesso con cui ritirano la spazzatura, con due pentoloni di minestra. Ritiro il piatto e sento l’odore del detersivo che vi hanno versato.

Butto il contenuto nella latrina, sciacquo il piatto e mi distendo sulla branda a torso nudo e a digiuno.

Guardando fisso il tetto, penso ai miei familiari: mi chiedo se sanno dove mi trovo.

ll mio compagno è nelle identiche mie condizioni.

Siamo in catalessi: non parliamo.

Ogni tanto un aguzzino da colpetti al tetto, per non farci dimenticare la loro feroce vigilanza.

È sceso il buio. Il plotone viene a chiudere il blindato. Chiedo, gentilmente, se possono spegnere la luce. Mi si dice di no, in tono infastidito.

Il vento sferza quest’isola come a volersi portare via tutto, compreso me. L’aria è gelida. Tristi i ricordi che la mente non cancella. Il sibilare dell’aria fra le grate mi fa mancare l’aria e non mi permette di fare uscire i pensieri.

Sento le mandate delle chiavi che chiudono ermeticamente i blindati Così la cella diventa una bara. Sono sepolto vivo in quello spazio che di giorno mi tiene in vita.

C’è un silenzio surreale: sento solo i passi dei miei carcerieri. Improvvisamente la luce dei loro fari di controllo entra dalla finestra con tale violenza da disturbare anche la mia sofferenza. Vivo nella più totale mancanza di umanità, mentre le zanzare completano il massacro.

[Rosario Enzo Indelicato, “L’inferno di Pianosa”, Sensibili alle Foglie, 2015]

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59° giorno di sciopero della fame di Alfredo Cospito

Questo breve post, come quelli che lo precedono e quelli che seguiranno, sono un contributo alla campagna per l’eliminazione del regime del 41bis e dell’ergastolo ostativo.

Si tratta per lo più di brani tratti da libri di cui consiglio comunque l’acquisto e la lettura integrale. La mia speranza è che questi piccoli estratti riescano, per quanto possibile, a dare un’idea di quel che si può fare in nome dell’amministrazione della giustizia, in particolare quando si sceglie di intervenire a posteriori ossia mirando l’autore dell’atto indesiderato, senza il minimo interesse alle ragioni, personali o sociali, della genesi di tali atti.

Evidentemente la ricerca delle cause rischierebbe di sollevare delle questioni troppo scomode o complesse per gli equilibri del progresso borghese.

Queste pagine vogliono essere un cotributo di solidarietà allo sciopero della fame di Alfredo Cospito, Anna, Juan e Ivan, contro il 41bis e l’ergastolo ostativo.

Qui una parzialissima rassegna stampa sullo sciopero della fame di Alfredo

dicembre 2022


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