Il diritto penale del nemico: Alfredo Cospito, il 41bis e la guerra

Il 41bis è una norma dell’ordinamento penitenziario il cui primo paragrafo, nella formulazione attuale (legge 94/2009) recita così:

«Quando ricorrano gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica, anche a richiesta del Ministro dell’interno, il Ministro della giustizia ha altresì la facoltà di sospendere, in tutto o in parte, nei confronti dei detenuti o internati per taluno dei delitti di cui al primo periodo del comma 1 dell’articolo 4-bis o comunque per un delitto che sia stato commesso avvalendosi delle condizioni o al fine di agevolare l’associazione di tipo mafioso, in relazione ai quali vi siano elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con un’associazione criminale, terroristica o eversiva, l’applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla presente legge che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza. […]»

Saltano agli occhi due cose. La prima è una certa dose di indeterminatezza premessa alla sua applicazione: il fatto che ricorrano “gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica” è frutto di una valutazione soggettiva non certo di una determinazione oggettiva. La seconda è che l’applicazione della sospensione delle regole trattamentali degli imputati è demandata al Ministro di Giustizia, ovvero al Ministro dell’Interno, e quindi ai vertici del potere esecutivo e non a quello giudiziario.
Queste due condizioni fanno del 41bis un caso tipico di quello che il giurista tedesco Günther Jakobs ha definito “il diritto penale del nemico”. Questo consiste nell’identificazione di alcune categorie di soggetti per i quali, in nome di un presunto statuto di pericolosità sociale, è ammesso il superamento delle norme giuridiche (e, diciamo noi, etiche) ordinarie, e che quindi necessitano di uno strumento di diritto speciale. Nel caso del 41bis a poco vale l’eccezionalità del provvedimento, per altro reiterata costantemente nel tempo. Lo scopo di questo strumento dell’ordinamento penitenziario è triplice. In primo luogo serve a ‘togliere di mezzo’ i soggetti eccessivamente scomodi (su questo il caso di Alfredo Cospito è paradigmatico: l’unico risultato, oltre a quello dimostrativo, di tenerlo al 41bis è quello di impedirgli di esprimere pubblicamente le sue idee); in secondo luogo sposta l’attenzione dall’oggettività del reato alla soggettività del reo. Il mafioso innanzitutto è mafioso poi, casomai, è responsabile di qualche fatto specifico, che a sua volta può avere diversi livelli di gravità. Tant’è che diversi ristretti al 41bis non hanno neanche superato il primo grado di giudizio quindi, secondo il principio costituzionale della presunzione di innocenza, dovrebbero essere considerati non colpevoli (non parliamo poi di quel che successe nel 1992 quando di sospettati di mafia si fece la pesca a strascico per mandarli all’Asinara o a Pianosa dove vennero sottoposti alle peggiori vessazioni fisiche e psicologiche(1)). In terzo luogo induce a pensare che, mentre è vero che “al di là” delle linee nemiche molto ci è permesso, al di quà, dove non è più necessario invocare l’emergenza, tutto fluisca con equilibrio, nel rispetto dei principi, nella correttezza delle regole. L’eccezione, l’abuso, la violenza possono essere tollerate sì, ma solo al di fuori dei confini della giustizia “ordinaria”, che viene in questo modo completamente legittimata. Oltre al “carcere duro”, prima della libertà, c’è solo il “carcere giusto”. Infatti nel 2020, nelle rivolte del carcere di Modena, non ci sono stati morti ammazzati, a Santa Maria Capua Vetere non ci sono state persone picchiate. Sappiamo che in carcere si muore di suicidio, che è il frutto di una decisione individuale, di malattia, o di vecchiaia, come ovunque. Ordine e decoro regnano sovrani.

Il “diritto penale del nemico”, a sua volta, è una fattispecie del “diritto penale d’autore” ossia è una norma che agisce sull’appartenenza dei soggetti a cui si applica a una determinata categoria di persone: “i mafosi”, “gli anarchici”, “i clandestini”, e prima ancora “i terroristi”, “i drogati”, … La determinazione della sua misura, quindi, riguardando essenzialmente il comportamento e lo stile di vita dei soggetti, è più materia delle forze di polizia la che conclusione di una valutazione ponderata di prove fattuali da parte delle corti giudicanti. Saranno infatti i rilievi ambientali, le informative, i fermi, la ricostruzione delle reti relazionali ed amicali, deduzioni sempre imponderabili, a costituire gli elementi per determinare l’attitudine “criminosa” del soggetto e quindi l’applicabilità del provvedimento.

Quando, nei primi anni ‘80, la politica affidò alla magistratura il compito di domare la conflittualità sociale da lei stessa prodotta ancora forse non era chiaro che, con la flessione sul “diritto del nemico”, la funzione regolatrice in breve si sarebbe trasferita dalle aule dei tribunali agli occhi indagatori delle forze di sicurezza interna, passando così, dallo Stato di Diritto allo Stato di Polizia senza neanche scalfire la carta costituzionale. Uno scaricabarile che si è fermato solo alla casella più bassa.

Nel frattempo, di emergenza in emergenza, le contraddizioni sociali aumentano amplificate da una crisi sistemica quasi ventennale e altre categorie a rischio sono in arrivo: i lavoratori che scioperando rallentano la produzione, i giovani che non vogliono sottostare al ricatto meritocratico, i senza casa e i senza lavoro, chi rifiuta la digitalizzazione ed il controllo, le occupazioni. Quando diventeranno materia del diritto, se dovessero riuscire a costituirsi come un nuovo pericoloso altrove sociale, i soggetti coinvolti potranno passare direttamente nell’interesse dell’attività investigativa e predittiva di polizia e carabinieri, contribuendo così a mantenere alti i tassi occupazionali dei corpi militari dello Stato e delle spese per la sicurezza interna che, come ci dicono, sono segrete.

La parola “nemico” evoca scenari prossimi: è il diritto di guerra che affida agli eserciti e non più alle diplomazie (e men che meno al consesso dei popoli, ma non vorremmo esagerare) il compito di affrontare i dissidi internazionali. Varrà a nascondere il contesto, a cancellare la storia per corroborare la retorica dell’appartenenza al corpo dei “giusti”.

Le “carceri dure”, le “guerre” ma anche il becero e perentorio pensiero unico ammantato di scientismo che ha accompagnato gli anni di pandemia, o il malnascosto razzismo insito nel reato di clandestinità e in quelle putride galere amministrative che sono i Centri di Permanenza per il Rimpatrio, esigono silenzio, spengono il dissenso e la critica, ché con il “nemico” non è ammesso trattare. Tendono così a minare i presupposti della rivincita sociale.

L’esistenza di un nemico è una garanzia di sopravvivenza per chi governa la battaglia. Attaccante ed attaccato costituiscono un inscindible binomio in cui le due parti si sostengono vicendevolmente. Va da sé che gli altri, i governati, debbano andare a morire nel nome di un ideale che non li (ri)conosce in alcun modo. E l’industria degli armamenti giustifica immeritati profitti.

Vale per tutti gli eserciti e gli schieramenti: il vero nemico è altrove. Al di là del confine vi sono uomini e donne come noi, che meritano gli stessi diritti (e la stessa etica). Che il confine sia un fiume o le porte di una prigione poco importa. Anzi no, importa, perché mentre il fiume va rispettato e curato le porte della prigione vanno aperte e così lasciate, i muri abbattuti.

Mentre guerre interne ed esterne segnano il presente riots e rivolte scoppiettano un po’ ovunque. Sono più o meno consapevoli forme di resistenza, forme del divenire.


È tempo di cambiamento.

ommot 24 febbraio 2023

(1) Delle interessanti letture a questo proposito si trovano su Rosario Enzo Indelicato, “L’inferno di Pianosa”, Sensibili alle Foglie, 2015 e Le Cayenne italiane, a cura di Pasquale de Feo, Sensibili alle Foglie, 2016.


Pubblicato

in

da