il Traditore

È in programma nelle sale di questi tempi un film che gode dell’indiscusso successo di pubblico e critica. Il Traditore, di Marco Bellocchio (2019).

La pellicola racconta la storia di Tommaso Buscetta, tra i primi e forse il più importante, pentito di mafia.
In realtà il film non racconta la storia di Buscetta. Di lui non sappiamo come crebbe, se non che fu ultimo di 17 figli, non sappiamo come diventò grande nella sua grande famiglia che non fu però ‘la mafia’: “la mafia non esiste” dice Buscetta, è una invenzione dei giornali, “la nostra organizzazione si chiamava ‘Cosa Nostra’”. Non sappiamo, quindi, come e perché divenne un pezzo importante di quella ‘famiglia’, di cui, dice, si è sempre considerato un ‘semplice soldato’, rispettoso di regole e codici. Non sappiamo cosa fece in Brasile, dove passò due lunghe latitanze, se non che ebbe lì modo di risposarsi e rifarsi una calorosa famiglia oltreché sfuggire alla furia omicida dei corleonesi durante la seconda guerra di mafia dei primi anni ‘80.

Il film, e il titolo lo lascia ad intendere, vuole raccontare del percorso che portò Buscetta a diventare una delle più forti carte in mano allo dello Stato nella lotta contro Cosa Nostra.
C’è un filo che lega l’avvento dei corleonesi di Totò Riina con Palermo che diventa la capitale mondiale dell’eroina, il cambio radicale nei codici della famiglia, la guerra interna che lasciò centinaia di cadaveri (affiliati e parenti delle fazioni opposte, uomini, donne, bambini) sulle strade del capoluogo siciliano e quindi l’intervento dello Stato, le indagini di Giovanni Falcone che portarono al maxiprocesso alle cosche siciliane del 1986 e alla morte dello stesso Falcone nel 1992.

Vogliamo dare per buono che la sceneggiatura sia filologicamente corretta, il dialogo tra Buscetta e Pippo Calò nell’aula bunker di Palermo è una ricostruzione fedelissima di quanto realmente avvenne (e che ancora oggi si può vedere su YouTube) e non c’è motivo di sospettare che siano state fatte delle forzature fantasiose alla ricostruzione storica, forse anche in quel surreale corteo notturno di palermitani, con cartelli inneggianti “VIVA la Mafia che ci da lavoro” in cui incappa Buscetta, già pentito, mentre un’auto della polizia lo sta portando a testimoniare nell’aula Bunker del Tribunale di Palermo.

Il film quindi ci racconta quella che in fondo è una vicenda toccante. Un uomo cresciuto non sappiamo quanto al di fuori della legalità ma con un sacco di buoni principii e che proprio nel nome di questi, per porre freno ad un deteriorarsi del sistema di valori e delle regole interne della sua organizzazione extralegale sceglie di collaborare con lo Stato e mandarli tutti in galera, avversari e amici. Una redenzione che passa attraverso una delle più significative figure della lotta alla mafia, il giudice Giovanni Falcone appunto, a cui Buscetta affiderà una deposizione lunga più di 400 pagine.

Diciamo che a livello narrativo una trama che riesce a cortocircuitare la figura di un cattivo e di un superbuono, con una buona dose di sofferenze per entrambi, è in grado di generare il pathos necessario a tenere alta l’attenzione dello spettatore. In effetti il ritmo tiene, anche grazie alla magistrale interpretazione di Favino e Lo Cascio, per tutti i 148 minuti (che non sono pochi nel mondo abituato messaggi di 288 caratteri e della comunicazione in tempo reale).

Però c’è un però. Nel film manca la Palermo degli anni ‘30 e quella dell’arrivo degli Americani nel 1943, con l’appoggio e l’assistenza di uomini della mafia siciliana, quando Masino Buscetta venne svezzato e introdotto al codice e all’onore. Mancano i rapporti tra la mafia e la destra eversiva con il tentato coinvolgimento di Cosa Nostra nel progetto di golpe di Junio Valerio Borghese. Mancano i traffici internazionali di eroina e cocaina, la mafia italiana negli USA e i rapporti con il governo stesso degli Stati Uniti che contesero all’Italia il reprobo e che garantirono per lui alloggio e sicurezza negli ultimi anni della sua vita in cambio di altre confidenze sulla mafia italoamericana.

Il cinema ha una dimensione chiusa, 148 minuti non potevano che contenere i cenni di una vicenda così articolata che però rischia così di ridursi ad una storia di buoni sentimenti.

Ciò che manca più di tutto, però, è un punto d’osservazione meno concentrato sul particolare da cui si possa vedere come l’arrivo dell’eroina fu tollerato, se non voluto, dai poteri forti del nostro paese come utile strumento per tagliare le gambe ad una generazione ribelle e riottosa all’ordine e come dell’uso giuridico e dissennato dei pentiti esattamente in quegli stessi anni si faceva bastone a difesa dei poteri costituiti della prima Repubblica contro una classe sociale in rivoluzione. Non c’è traccia di come il fenomeno del pentitismo face strame delle regole della giustizia borghese (a cominciare da Cesare Beccaria) in nome di un’emergenza che non ha più smesso di essere. Il film zoomando sui personaggi principali e tralasciando i contorni diviene l’apologia dell’uso giuridico dei pentiti, vicenda questa per nulla edificante.

In tutto questo Buscetta, forse davvero più affezionato alle donne che al potere, fu trafficante di eroina e pentito giuridico e quindi rientra a pieno titolo in una storia importantissima di cui nel film non c’è neanche l’ombra.

È facile (oggi) fare scena mostrando un Andreotti senza pantaloni, aggiunge al duetto “superbuono” / “cattivo redento” la figura del politico cattivo, che alla fine vincerà per intelligenza e furbizia, lasciando gli eroi con un pugno di mosche in mano e gli spettatori in attesa della successiva puntata. Facile anche perché questa anima nera ormai è morta, come tutti i principali personaggi del film.

La trama ci racconta di due eroi opposti ma simili, Falcone e Buscetta, legati da un reciproco rispetto e da un compito simile: entrambi cercarono di rompere l’omertà delle loro rispettive famiglie.

In realtà, però, se non andiamo per forza in cerca di eroi, ciò che in questa storia non si vede ma c’è è che quelle persone che sfilavano per Palermo in quell’improbabile e surreale corteo, ossia i senza futuro, erano e sono i veri sconfitti, e che questa lotta tra lo Stato e le sue emergenze ha prodotto dei mostri con cui prima o poi qualcuno dovrà fare i conti lasciando i diseredati e gli oppressi, come sempre, da soli.

3 Agosto 2019

tommaso