Who killed the Flower Moon?

Killers of the Flower Moon, Martin Scorsese, 2023

È da quando eravamo piccoli che sappiamo quali e quante malefatte compirono i coloni europei nei confronti degli indigeni delle americhe.

La contronarrazione delle atrocità commesse dai pionieri bianchi nei confronti dei nativi pellerossa, che ribalta gli stereotipi dei cinema western tradizionale, è oramai un dato acquisito. “Piccolo grande uomo” di Arthur Penn è del 1970, noi siamo cresciuti a pane e Tex Willer che è sì bianco e il migliore nell’uso della pistola ma nelle cui vene scorre “sangue Navajo” e il cui più fidato amico (forse fratellastro) è appunto un “pellerossa” Tiger. Non ho motivo di dubitare che oltreoceano le cose siano andate molto diversamente.

Quando Martin Scorsese racconta la storia della tribù degli Osage non affronta, almeno in apparenza, un argomento nuovo. Il tema dello sciacallaggio e dello sterminio dei nativi americani è noto anche se qui la vicenda ha dei motivi di interesse in più. Un miracolo della natura unito ad uno strano (e temporaneo) rispetto del diritto di proprietà, fa sì che alla fine della prima grande guerra una tribù indiana composta da poco più di 2000 persone si trovi in possesso di alcuni pozzi petroliferi in una zona impervia dove erano stati forzatamente trasferiti ai primi del ‘900.

In accordo con le compagnie petrolifere, che continuano a farla da padrone, questi indios si trovano ad incassare ricche royalties per i diritti sui terreni su cui erano i pozzi. Nemesi della storia saranno, per un poco, loro quelli “ricchi” mentre ai “bianchi”, non a tutti, ma a “molti bianchi”, non restarà altro che fare i garzoni.

La situazione non può durare, il nativo americano è molto gentile e paziente, ma un poco ingenuo mentre il pioniere, cresciuto secondo la legge del più forte, è cinico e determinato a raggiungere il suo obiettivo che è fatto sempre di potere, soldi e donne.

Gli Osage non costituiscono una eccezione, hanno un profondo senso della parola e conoscenza dell’animo, sanno molte verità senza sentire il bisogno di parlarne: “Stai attento, se non parlano non significa che non hanno capito” dice il vecchio e spregiudicato William Hale (Robert De Niro), ma sono poco preparati e non sanno che nello scontro tra rentiers e briganti sono spesso questi ultimi ad avere la meglio.

Nella loro ingenuità, dopo aver perso un rappresentante della tribù inviato al congresso a difendere le loro ragioni ed un detective assoldato per scoprire il perché delle misteriose morti che li stanno decimando, vanno a chiedere soccorso direttamente al presidente degli stati uniti Calvin Coolidge.

Qui la vicenda ha una svolta, l’istanza della giovane indiana induce il presidente ad inviare una squadra del neonato Federal Bureau of Investigation che arriva a Fairfax guidata da Tom White (Jesse Plemons). Questi rapidamente identifica l’anello debole della vicenda, Ernst (Leonardo Di Caprio), nipote di William Hale, diviso tra l’amore sincero verso sua moglie Mollie (l’inappuntabile Lily Gladstone), indiana, a cui lo zio William sta letteralmente sterminando la famiglia per guadagnarsi i diritti sui pozzi, e la passione per il denaro e il vizio. Classico vaso di coccio Ernst prima si fa convincere a collaborare con l’FBI poi torna nelle braccia della famiglia e protegge lo zio per poi cambiare di nuovo bandiera e mandare definitivamente William Hale in galera. Per Ernst è una disfatta totale. È troppo tardi per giocare il suo tradimento in una trattativa con l’FBI, dal tribunale si esce colpevoli od innocenti, e Ernst è indubbiamente colpevole. È tardi anche per salvare il rapporto con la moglie, che parrebbe disposta persino a passare sopra al fatto che lui la stesse lentamente uccidendo a patto che Ernst lo ammetta, cosa che non avviene ma che offre a Di Caprio l’occasione per cambiare finalmente espressione del viso ed offrire allo spettatore un minuto di recitazione eccellente.

Tutto bene quindi, le malefatte dell’uomo bianco vengono sanate dall’uomo bianco, la moderna democrazia federale vince sul primitivo west. Lo Stato, pareggia i conti con i pionieri, un po’ buzzurri, anarchici e malfattori. Possiamo dunque dormire sonni tranquilli.

Un poco banale forse ma giustificato da tre ore e dieci minuti di epopea raccontata con abbondanza di mezzi e grande maestria. Sono tre ore e dieci che non si fanno minimamente sentire.

Ma è nel momento di chiudere che Scorsese, o meglio David Grann, autore del libro da cui il film è tratto, pigia sull’acceleratore. A questo punto si tratterebbe solo di raccontare come è andata a finire: quanti anni di galera farà Erns, quanti William, che fine farà Mollie. Bastano una decina di minuti, un’occasione d’oro per Martin. Così, anziché affidare queste note a delle parole stampate su uno schermo nero, Scorsese mette in scena il palcoscenico in cui una troupe radiofonica avrebbe recitato, vent’anni dopo, per la trasmissione The Lucky Strike Hour, lo spettacolo che abbiamo appena finito di vedere. Microfoni con l’asta, attori rigorosamente bianchi e ben vestiti, una piccola orchestra e, immancabile, il rumorista. È l’immagine della finzione. Ed è nel momento del cambio scena, non appena sul nostro schermo appare il palcoscenico con il fondale rosso e la claque seduta in sala, che l’attore/narratore (Martin Scorsese) ci ricorda che “questo spettacolo è offerto da Edgar J. Hoover e dalle sigarette Lucky Strike”.

Perbacco, e cose c’entra Edgar J. Hoover, il primo, più longevo e molto discusso direttore del FBI? Perché mai vuole offrirci uno spettacolo? Forse che Scorsese/Grann vogliono suggerire che le cose non siano andate esattamente come nel film? Vuole dirci che quella che abbiamo visto non è che una versione edulcorata, una finzione nella finzione, e che in realtà l’epilogo non è il trionfo della giustizia ma solo, ancora una volta, un pesce più grande che si mangia quello più piccolo? Chissà.

Dicono che le Lucky Strike siano state le prime sigarette ‘a tostatura’. Una leggenda vuole che abbia preso fuoco una fabbrica di tabacco e che le sigarette bruciacchiate (toasted) siano piaciute. A questo fatto si dovrebbe il nome della marca: “Lucky Strike”: un colpo fortunato. Secondo un’altra leggenda una sigaretta su cento avrebbe contenuto della marijuana.

Nel gergo americano sono sinonimo di cacciaballe.

Ommot, novembre 2023

(un articolo più esaustivo sul finale del film è The Audacious Ending of Killers of the Flower Moon, Explained di Katey Rich su Vanity Fair)


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